Sport Brand Journalism: un nuovo modo di pensare per il marketing sportivo

sport brand journalism e inter media house

Ho un’amica che lavora in Banca. Nella filiale di un grosso gruppo. Si occupa di proporre servizi finanziari, nelle mille difficoltà che, oggi, questo comporta. A parte un ‘fisso’, guadagna in base a quanto vende. Insomma, ‘a provvigioni’, come si suol dire. Operando sul target business, con gli imprenditori delle piccole e medie imprese, ha capito che questi ultimi facevano fatica a comprendere i prodotti e i servizi che propone. E, soprattutto, ha compreso che c’era abbastanza confusione anche all’interno dello stesso Istituto di Credito. Ha valutato il contesto, ha messo insieme le informazioni, ha elaborato e poi ha agito, puntando su un elemento di cui tanti parlano ma sul quale, in realtà, lavorano realmente in pochi. Pochissimi.

I contenuti.

Sì, ha scelto di produrre contenuti, di sua iniziativa, di proprio pugno, per fare chiarezza, per informare, per promuoversi attraverso una migliore conoscenza di ciò che vende. Nel suo caso, ha scelto LinkedIn per diffonderli. Non è stata autoreferenziale, non ha deciso di parlare direttamente dei prodotti. Ha iniziato il suo percorso con uno sguardo sull’attualità, sulle difficoltà di chi fa impresa, su uno scenario nel quale la gestione aziendale diventa sempre più complessa. E, dalle informazioni, dai problemi, ha portato alle possibili soluzioni. Articoli non troppo lunghi, il suo target non si intrattiene molto nella lettura, ma puntuali, scritti bene, precisi.

Il risultato?

Ha iniziato ad essere seguita, ha attirato l’attenzione. Non solo all’esterno, nel target di riferimento. Quanto, soprattutto, all’interno della stessa azienda. I manager della quale hanno cominciato a condividere i suoi focus, generando un processo di diffusione esponenziale. Dopo poco, è diventata il punto di riferimento, nel suo habitat quotidiano, tanto da ricevere una mail dalla sede centrale, nella quale le proponevano di passare dalle vendite alla comunicazione. Di dedicarsi a quello. Di portare valore per chi, poi, materialmente avrebbe pensato a chiudere accordi. A firmare contratti. Lei, però, nel frattempo, si è posizionata. Nella mente dei top manager della sua compagnia che, probabilmente, sono i suoi primi clienti. Ha avuto un contratto a tempo indeterminato, un nuovo ruolo. La responsabilità di portare avanti, nel tempo, un lavoro ormai fondamentale per qualsiasi attività di business.

Brand Journalism: un nuovo modo di pensare

Si parla, in continuazione, di digitale e di rivoluzione. Si è scritto e si scrive di tutto. Ma non è di quello che voglio parlare, né scrivere un ‘how to’, per una super strategia. Se ne leggono tante, ma, quella vera, si costruisce su misura. Ognuno ha le sue esigenze, i suoi obiettivi. I contenuti e i mezzi, quindi, vanno studiati e scelti in base all’analisi del contesto nel quale si opera.

Quello che voglio fare è semplice. Identificare i punti chiave di un nuovo modo di pensare. Quello, per intenderci, che ha avuto la mia amica scegliendo di informare sul suo settore commerciale. Chi firma i contratti oggi, dicevamo, è qualcun altro, che, però, vende anche grazie a lei. Che anticipa il contatto, che crea interazione sui canali aziendali, lavorando sulla reputazione, sulla rilevanza. Il momento della trattativa, della pura vendita, grazie al suo lavoro, è la fine di un percorso nel quale l’utenza sa già di cosa si sta parlando. E ha già maturato la sua idea su ciò che le serve.

Ci sono tre elementi, che vi dovrebbero saltare agli occhi:

non è una giornalista, ma ha lavorato con competenze giornalistiche che non dipendono da un tesserino;

ha manifestato la giusta sensibilità giornalistica nel selezionare, elaborare, preparare e diffondere informazioni utili e interessanti per chi le avrebbe dovute leggere;

non ha avuto bisogno di un quotidiano, per informare.

Ha messo insieme analisi, studio, conoscenza. Poi ha elaborato, scegliendo un format, in questo caso brevi articoli, in base alle caratteristiche del suo target, sfruttando un mezzo, un new media, come diciamo spesso, tra i tanti che sono oggi a disposizione di tutti. Ha disintermediato, è arrivata dove voleva. Forse anche oltre.

In poco tempo, per una determinata audience, è diventata un punto di riferimento. Facendosi scegliere. In funzione, nel suo caso, di una domanda latente. Sì, perché i top manager della sua Banca pensavano a come migliorare le vendite, a come supportarle, eppure non avevano ancora la soluzione.

Lei, con la sua scelta, gliel’ha proposta, illustrata, fatta toccare con mano, senza che le fosse richiesto.Ed è proprio qui che si comprende perché il brand journalism non sia content marketing, per il quale il primo obiettivo è un posizionamento online su keyword dagli alti flussi di ricerca. Un lavoro importante, assolutamente, ma che rappresenta solo una parte, un capitolo del libro intitolato al giornalismo di marca. Così come, un altro capitolo, è il racconto delle storie dell’azienda. Che spesso si associa ‘al tutto’, che diventa la definizione di un argomento che evidentemente risulta ancora poco chiaro a tanti. Cosa sarebbe, sennò, lo storytelling? Ecco, il brand journalism non è il racconto delle storie dell’azienda, è bene sottolinearlo. Queste ultime, però, ne fanno parte. E la native advertising, allora? Qual è la differenza?

È sostanziale.

Un articolo, su un canale ad alta diffusione, pagato da un’azienda perché diventi parte del flusso di notizie su un dato media, è l’esatto opposto. Il brand journalism è contenuto prodotto non sull’impresa, ma dall’impresa, nell’80% dei casi con focus su un’entità esterna, addirittura un competitor, col fine di informare su un ambiente economico del quale, così facendo, si punta a diventare leader. Si tratta di mettere in evidenza gli altri, per portare valore a se stessi. Un valore che ritorna in termini di brand awareness, riconoscibilità di marca, stima, per così dire. Quella riconoscibilità e quella stima che diventeranno fondamentali quando i lettori, i follower, i fan, avranno bisogno dei propri servizi e/o prodotti, e dovranno scegliere da chi acquistarli.

Il brand journalism, per questo, è etica allo stato puro. Crea valore generando cultura, formando.

Brand Journalism: informazione, intrattenimento e rilevanza

Il contenuto a rappresentare il pilastro fondamentale di una strategia che, quindi, ingloba, sostiene ed abilita l’influencer marketing e le digital pr. Un contenuto da studiare, pensare e produrre in funzione degli argomenti d’interesse del proprio pubblico, evidenziandone di nuovi, facendo tendenza:

dati proposti in accattivanti infografiche;

informazioni e suggerimenti;

presentazioni;

aggiornamenti di notizie;

copertura live di eventi, convegni e conferenze;

esperienze di esperti;

case study;

video tutorial;

video informativi;

video di intrattenimento;

interviste ai più importanti rappresentanti ed influencer del settore.

Questi sono solo alcuni esempi di quello che si può fare, lavorando su un ben strutturato piano editoriale. I pillar sul proprio know-how, le attività aziendali, in progress, in tempo reale, l’ambiente economico di riferimento, il potere delle interviste per lavorare su un contatto one to one ancora molto sottovalutato.

Tutti cercano i numeri, infatti, nell’illusione della quantità, dando ancora troppo poco valore alla qualità.

Ma, se l’obiettivo è creare opportunità, bisogna ragionare diversamente, e in funzione di ciò per cui i social sono nati: azzerare le distanze. Si parla tanto di pubblicità individuale e poi? Tutti a rincorrere i numeri. Ma cos’è un contenuto, ben fatto, informativo, se non una pubblicità? Una pubblicità diversa, una pubblicità che non annuncia ‘quanto sono bravo’, ma che punta a dimostrarlo. Nel tempo. Nell’era dell’apparenza di massa, la scelta di ‘essere’ è ancora per pochi. Soprattutto nelle decisioni aziendali. Eppure, meglio un contenuto letto da poche persone del proprio target che da molte che non lo sono. Le cosiddette ‘vanity metrics’ che gli addetti ai lavori denigrano, insomma, ma per le quali tutti, se ne hanno modo, si vantano.

Bisogna, invece, pensare a essere rilevanti. Iniziando a farlo prima per uno, poi per dieci. Fino ad arrivare a mille e centomila. Vendere diventerà una conseguenza.

Sport Brand Journalism: idee, contenuti, strumenti e diffusione per la monetizzazione

Cosa comporta, tutto questo, nelle strategie delle aziende sportive? Cosa cambia, nello sport business, nell’era in cui i media diventano brand e i brand, a loro volta, puntano sulla digital transformation per proporsi da media? Nello sport di alto livello, di sicuro, ci sono alcune differenze che rappresentano anche il motivo per il quale la sport industry anticipa il cambiamento, tracciando la strada. Eccone alcune:

Consapevolezza di marca già acquisita, trattandosi di aziende decisamente molto seguite, e, soprattutto, già molto amate dai fan, ovvero i propri clienti.

Disponibilità di mezzi economici per investire sulla struttura organizzativa, ovvero:

staff altamente specializzati per la creazione di contenuti;

nuovi strumenti, puntando sulla tecnologia, per la loro diffusione.

Partecipazione degli atleti, a loro volta molto seguiti, coinvolti per aumentare la portata organica.

Ecco perché, a differenza delle imprese ‘normali’, intente oggi, nella grande disattenzione generale, a intercettare concretamente i propri target, quelle sportive sono uno step avanti e, i loro reali obiettivi, considerando una platea che è già in sala, nell’attesa di godersi lo spettacolo sono:

il tempo delle persone;

la profilazione dell’audience;

la comprensione dei suoi desideri;

l’acquisizione dei suoi dati;

la ‘verticalizzazione’ della proposta di contenuto;

la creazione più evoluta di format differenti in base ai canali che si è scelto di presidiare;

la monetizzazione diretta;

la capitalizzazione indiretta, rivendendo le informazioni agli sponsor che, a loro volta, hanno evoluto le loro stesse esigenze commerciali.

Visibilità e affinità.

A differenza del giornalismo classico, quindi, ancora intento a fare bella mostra del suo modello basato sulla tiratura, per un cartaceo già obsoleto nel momento stesso in cui viene stampato, e su copia-incolla e click baiting online, pronto a collassare, il brand journalism ha bisogno di una qualità e di una organizzazione che punti alla differenziazione, sfruttando realmente la disintermediazione.

La comunicazione, fatta con le logiche dell’informazione. L’informazione, con gli standard qualitativi della comunicazione. Nell’era digitale, anche il giornalismo tradizionale si evolve: la differenza è via via meno percepibile. Come testimoniano anche le scelte di alcuni quotidiani, che puntano sempre più su una veste grafica curata, così come su dati e statistiche inserite in bellissime infografiche. I titoli? Veri e propri copy, come nelle migliori campagne pubblicitarie. Parallelamente, le aree di comunicazione interne alle aziende, e le agenzie, si stanno digitalizzando e trasformando in redazioni, per strutturare prodotti che puntino sugli stessi elementi: informazioni, dati, statistiche, infografiche, con grande cura del content design e con tecnologia e mobile a fare la differenza per organizzarne la propagazione e la viralizzazione.

Un esempio?

La comunicazione del Milan, dove oggi c’è Fabio Guadagnini, nel caso Pallotta-Fassone. Ricordate? Un caso perfetto per spiegare le evoluzioni che viviamo grazie ai new media.

In modo totalmente ‘disintermediato’, sfruttando le opportunità del digitale, della tecnologia e dei social, la società rossonera ha gestito in modo tempestivo, diretto, chiaro ed esaustivo la questione, rispondendo attraverso il proprio Amministratore Delegato ad ogni interrogativo posto da Pallotta, il presidente della Roma, che aveva sollevato dubbi sulla gestione finanziaria milanista in rapporto agli investimenti nel calciomercato estivo, ed evitando una possibile crisi. Ovvero, in quel caso, che si potesse diffondere un’opinione negativa ed errata del nuovo management e, di conseguenza, dell’azienda. Il risultato? È stata totalmente ribaltata la percezione della situazione e si è generata grande fiducia tra tifosi e addetti ai lavori.

Una comunicazione che ha avuto tanti punti di forza e benefici, essendo stata:

incisiva,con l’AD del Milan che si è riferito in modo diretto a chi aveva tirato in ballo la società, insinuando dubbi sulla gestione del management rossonero;

tempestiva, con tempi dell’intervento opportunamente ridotti, per chiarire subito ed evitare che il pubblico potesse farsi un’idea sbagliata dopo le parole del presidente della Roma;

informativa, perché senza scomporsi, in modo tecnico, ma anche semplice ed esaustivo per i tifosi, ovvero i propri clienti, Fassone ha risposto punto per punto alle perplessità di Pallotta, dando informazioni precise e dettagliate;

disintermediata, poiché sfruttando i new media, la società rossonera ha potuto veicolare il messaggio col quale ha gestito la comunicazione della propria posizione. Dopo la pubblicazione sui suoi canali social ufficiali, infatti, tifosi e testate hanno riportato le informazioni, viralizzandole;

evoluta, perché grazie al digitale, e con un semplice smartphone, il manager del Milan ha registrato il breve video. Che, poi, inviato alle risorse interne della società, sempre più organizzate come una redazione, la Milan Media House, è stato  velocemente elaborato, completato e rifinito per essere pronto per l’immediata diffusione.

A conferma che, per qualsiasi club moderno, un uso ben gestito dei social media può fare davvero la differenza: Facebook per il coinvolgimento, Twitter per informare e per i live degli eventi, Instagram per i ‘dietro le quinte’, YouTube per i video che, però, la piattaforma di Zuckerberg sta progressivamente inglobando. Format, inoltre, su cui ha puntato molto anche Dugout, il nuovo ‘social del calcio internazionale’.

E, proprio in relazione ai video, pensate allo streaming, alla ‘guerra’ dei nuovi diritti televisivi e alla diversa distribuzione delle ripartizioni economiche. Quali saranno le televisioni del futuro? Perché Amazon, Netflix e Zuck stanno puntando su questi prodotti? Semplice. Perché hanno capito che il pubblico dello sport, globale e trasversale, rappresenterà una fonte di reddito fondamentale e da sfruttare. Le masse si stanno spostando. Lo sport sposta le masse.

Contenuto. Tempo. Visibilità. Business. Non ci sarà più bisogno del media per eccellenza?

“Ho il compito di far sentire vicini i tifosi alla Roma. Stiamo utilizzando le piattaforme digitali per raggiungere e coinvolgere milioni di fan e altri nuovi potenziali in tutto il mondo. Sfruttiamo anche le risorse di ‘Roma Studio’, che comprende il canale telematico e la radio ufficiale. Abbiamo una fantastica squadra di corrispondenti internazionali in tutto il mondo che ci aiutano a localizzare i contenuti del giorno, anche a Il Cairo e a Jakarta. Qualche tempo fa sembrava difficile, per molti tifosi, connettersi e comunicare con club o giocatori. I social hanno cambiato tutto e ora le barriere tra giocatori e tifosi si sono rimosse. È una cosa fantastica.” (Paul Rogers, Head of Digital and Social Media della Roma, in un’intervista a thedigitalline.co.uk)

Avete mai visto una conferenza stampa pre-partita di Di Francesco, allenatore giallorosso, su Facebook?

Inquadratura su di lui, che ribatte alle domande dei giornalisti, ma che, presto, potrebbe rispondere direttamente a quelle ‘live’ della gente, come fa spesso Spalletti, ora all’Inter;

Sponsor Wall alle sue spalle;

Box, a destra, con le notizie sulle attività commerciali della società giallorossa;

Fascia che scorre, sotto, con news sulla squadra e sul contesto di riferimento, ovvero sulle manifestazioni a cui partecipa il team.

E la strategia del Real Madrid? Sempre più in real time grazie a un numero elevato di dirette che porta un engagement altissimo e tempi di permanenza per questo considerevoli e altamente profittevoli per le stesse social company.

Perché ci sono e ci saranno, sempre con più capillarità ed attenzione, due possibilità di monetizzazione: quella classica, basata sulla visibilità e quella più evoluta, basata sul dato, una risultante dell’attenzione.

L’unica difficoltà sarà la gestione della frammentazione. Aumentano i touchpoint, aumentano anche le difficoltà di organizzazione. Per così tante informazioni, quindi, servirà un filtro automatizzato. Ecco l’esigenza di canali proprietari, di piattaforme che accentrino la gestione di tutte le attività di quelle che, ormai, possono essere definite vere e proprie redazioni. Un lavoro come quello, per un ulteriore caso concreto, di Inter Media House, nelle parole di Robert Faulkner, Chief Communications Officer del club nerazzurro alla rivista ‘Undici’:

“Specialisti madrelingua, content manager, social media manager, addetti alla gestione del supporto lato CRM/marketing, figure di coordinamento sulla parte grafica. Il tutto con una relazione continua con il mondo della televisione e un dialogo con Appiano.

Il progetto di Inter Media House e le strategie di brand positioning vanno di pari passo. Ogni singola interazione o contenuto parla del brand. Un’esperienza 7 giorni su 7, multipiattaforma, multi-device, multilingua. Si parte sempre dall’idea che l’Inter è un grande club, da questa consapevolezza ne consegue lo sviluppo di una strategia di posizionamento e di monetizzazione nel lungo e medio periodo.

Le squadre di calcio hanno un vantaggio competitivo rispetto agli altri brand, hanno una relazione unica con il proprio utente. Non c’è cliente più fidelizzato del tifoso di calcio. Su questo vantaggio competitivo impostiamo le logiche di Inter Media House, per diventare una società di intrattenimento. Lavoriamo con delle produzioni ad hoc per YouTube con un giornalista madrelingua inglese. Una parlerà della nostra collaborazione con Brooks Brothers, incentrata sul fashion. Poi avremo un approfondimento con Oldani sul mondo della cucina e con l’architetto Boeri su quello del design.

Se creo un bel contenuto con un top player ho più facilità a distribuirlo, se poi lo faccio in un momento in cui la squadra sta vincendo va da sé che l’ingaggio cresce. Così come, se partecipo alla Champions League, avrò un’esposizione mediatica maggiore. La case history di Netflix e Juventus? Quello è chiaramente un cambio culturale. Il fatto di riuscire a riprendere un discorso intimo del presidente con la squadra, il fatto di entrare nella camera di un giocatore, vuol dire comunque sdoganare certi tabù. Ovvio che puoi farlo in un momento in cui stai vincendo. Devono esserci le condizioni e tenere presente che il campo ha la precedenza.

Bisogna formare i calciatori a questo genere di nuova sensibilità. Non giocano più solamente in campo ma sono i nostri testimonial al di fuori, anche quando parlano con un giornale, o su un social media, o quando gestiscono un proprio account personale. Sono i primi evangelist e rappresentanti della squadra e del brand. Ci vuole un percorso di formazione.

Vogliamo consolidare sempre di più questo progetto e cambiare la cultura dell’azienda. Quando avremo la forza di saper gestire i giocatori, non solo come atleti ma anche come star, vuol dire che avremo fatto un percorso. Non succede in un attimo, ma avverrà. Il cambiamento è una faticosa opportunità e Inter Media House ne è una leva, è una visione di cambiamento.”

C’è altro da aggiungere?

Intrattenimento, comunicazione, informazione, profilazione, monetizzazione: un’unica struttura per un nuovo schema di gestione. Il futuro del marketing sportivo è nella Media House, una visione in piena realizzazione.

Cambia il modo di pensare, e il business model, con la disintermediazione.

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